[…] ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell’inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro di noi senza averne consapevolezza.
Ci eravamo lasciati con una mostra, Crossroad #1, che aveva unito due artisti estremamente diversi l’uno dall’altro, sulla base di un terreno culturale comune, rappresentato dall’habitat urbano. Allora, come nella mostra collettiva che l’aveva preceduta, l’indagine proposta al pubblico rinunciava volontariamente all’individuazione di un tema. L’analisi di un determinato topos non trovava spazio in due appuntamenti il cui obiettivo principale era quello di mettere in scena invenzioni estetiche: degli exercices de style sulla contemporaneità e sul suo modo di interpretare, a seconda dei casi, passato e presente.
Crossroad #2: Dittico, conserva la struttura dell’appuntamento precedente: due strade distinte che trovano un punto d’incontro attorno al quale costruire un discorso espositivo. In questa occasione, due autori interessati a mezzi espressivi distanti hanno individuato nell’infanzia il tema su cui fondare il proprio intreccio. Non ci troviamo di fronte ad una terra inesplorata, ma ciò non vuol dire che il percorso sia privo di insidie.
Una delle prime curiosità che ho manifestato a Nicola e ad Andreas, interrogandoli su questo lavoro, è se a loro avviso l’arte contemporanea si interessasse sufficientemente all’immaginario infantile e – più in generale – ai bambini. Per entrambi la risposta sembra essere negativa. Nicola Vinci parte dall’assunto che l’arte abbia rinnunciato da molto tempo alla propria funzione – assieme inquisitoria e psicanalitica – d’interrogarsi sull’esistenza umana, e questo per cause da ricercare tanto nell’influenza del mercato quanto nei mutamenti di una società che ha perduto il senso della famiglia e quello, ancor più prezioso, dell’educazione. Andreas Senoner ritiene che il legame fra infanzia e arte richieda una prudenza non scontata: il difficile, per l’artista, è maneggiare la naturalezza e la delicatezza necessarie a capire il mondo dell’infanzia e addentrarvisi, sfuggendo all’inevitabile deformazione di un’impostazione mentale adulta. In altre parole, dimenticarsi d’essere cresciuti, il che mi ricorda una citazione piuttosto inflazionata di Pablo Picasso – che dice più o meno: “Ogni bambino è un artista, il problema è come rimanere artisti quando si cresce”.
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Perdere il proprio status di adulti è forse la chiave per riuscire a rappresentare al tempo stesso l’immagine e l’immaginario dell’età infantile, ma né Nicola né Andreas hanno realizzato le proprie fotografie e sculture con l’obiettivo di riprodurre uno stile infantile. Ciò che fa di Crossroad #2 una mostra complessa è, al contrario, il tentativo di rappresentare le luci e le ombre dell’infanzia dimenticandosi di ciò che in termini di vita vissuta ci separa da essa, ma senza rinunciare a una cifra stilistica formata. Pensiamo alla luminosa rappresentazione dell’infanzia che Monet fissa nel ritratto del primogenito Jean e, all’opposto, a due cupe tele di Munch quali La pubertà e La fanciulla malata, in cui l’immagine dell’infanzia è legata a quella della morte, all’incombenza dell’età adulta, con i suoi demoni, primo fra tutti la malinconia. Queste opposte interpretazioni delle ambiguità del mondo infantile si uniscono nelle opere di Andreas e Nicola. In esse vige un’ambivalenza costante che, facendo il verso all’accoppiata freudiana di eros e thanatos (pulsione di vita e pulsione di morte), potremmo riproporre con una locuzione latina: ludus et melancholia, gioco e malinconia. Nelle sculture Another mouse e What would you attempt to do if you knew you could not fail?, Andreas Senoner combina l’elemento ludico (le orecchie da Mickey Mouse nella prima e il bambino a cavalcioni sulle spalle della ragazza nella seconda) alla severità dei volti tipica delle sue opere, resa particolarmente espressiva dalla lavorazione del legno, che rimanda direttamente alla scultura sacra. Gioco e malinconia permeano le fotografie di Nicola Vinci, “abitate” da un bambino con un costume da scheletro e una bambina in rosa. La simbologia affidata ai colori e ai vestiti parla da sola; a catturare la nostra attenzione sono le differenti scene raffigurate. In Tear, il bimbo-morte è colto nell’atto di strappare le pagine di un vecchio quaderno, come in un gioco frenetico, mentre la bambina sembra nascondersi, una mano portata al cuore. In un altro scatto, Le fifre, le immagini sfocate e sovrapposte dei due bambini alludono agli intrecci dolorosi che legano fanciullezza, maturità e caducità.
Gli scenari composti da Nicola Vinci ricordano il Matzerath del “Tamburo di latta” (Günter Grass, 1959) giovane dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che tuttavia trascorre la propria esistenza nell’ostinato rifiuto di crescere, passando per matto e demente. Nelle opere di Andreas il rifiuto della crescita e dell’invecchiamento ricorre in toni meno drammatici: è incarnato dal personaggio di Peter Pan, dal ruolo che questo gioca nell’immaginario popolare moderno. In entrambi incontriamo il desiderio che l’infanzia non finisca, di rimanere per sempre bambini, che trova voce dalla mitologia alla psicanalisi nella figura del puer aeternus: per gli antichi, divinità dell’eterna giovinezza; per Jung base del cosiddetto “archetipo”, struttura psichica elementare di ogni adulto. Una componente che racchiude luci e ombre: da un lato, l’infinito potenziale della crescita, la speranza per il futuro; dall’altro, l’immobilità di fronte alle difficoltà della vita, la paura dell’invecchiamento, la necessità di una via di fuga. In parole povere, il perdurare di una componente infantile all’interno della psiche formata.
Inevitabile, a questo punto, fare riferimento alla citazione che apre questo testo, e che sinora era rimasta taciuta. L’influenza che Henri Bergson ha avuto sulla critica e sulla letteratura è evidente in Benjamin[2] e nell’intera Recherche du temps perdu di Proust. Questi tre nomi sono accomunati da una distinzione, formulata da Bergson, tra quelle che egli definisce mémoire volontaire e mémoire involontarie: la prima utile, a cui ricorriamo spontaneamente, cioè il ricordo cosciente di un avvenimento passato; la seconda memoria, “non necessaria”, che Proust inseguirà per tutta la vita scrivendo la Recherche, rappresentata dai ricordi non più fruibili direttamente dalla coscienza, ma evocati inaspettatamente da esperienze sensibili già vissute, delle quali si era perduta traccia. Nicola e Andreas hanno portato avanti il proprio lavoro senza intenzioni mimetiche, senza cercare nel bambino un’immedesimazione stilistica e formale, mirando però a riscoprire quei ricordi non ancora filtrati dalla loro prospettiva di adulti. La loro opera è consapevole che i reperti della mémoire involontaire, i ricordi “non necessari”, i souvenirs de luxe di Bergson, seppelliti in profondo e proprio per questo intensi, sono le tracce più preziose e fedeli della nostra infanzia. Questa mostra, questo dittico, titolo scelto con convinzione da entrambi gli artisti, a sottolineare il doppio punto di vista e quasi la “sacralità” del tema affrontato, nasce con l’idea di restituire all’arte un compito antico, forse un po’ trascurato: rievocare le immagini e le sensazioni di un tempo perduto.
Nicola Vinci, Le fifre
Nicola Vinci, Il genio adolescente
Nicola Vinci, Tear
Nicola Vinci, I viaggiatori
[1] Trad. da H. Bergson, L’évolution créatrice, Les Presses universitaires de France, 1959, 86e édition, Collection Bibliothèque de philosophie contemporaine, p. 14
[2] In particolare, Über einige Motive bei Baudelaire, “Di alcuni motivi in Baudelaire” (1939), oggi in Angelus Novus, tr. It. Einaudi, Torino 1962
[…] ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell’inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro di noi senza averne consapevolezza.
Henri Bergson,
L’evolution creatrice, 1907[1]
Ci eravamo lasciati con una mostra, Crossroad #1, che aveva unito due artisti estremamente diversi l’uno dall’altro, sulla base di un terreno culturale comune, rappresentato dall’habitat urbano. Allora, come nella mostra collettiva che l’aveva preceduta, l’indagine proposta al pubblico rinunciava volontariamente all’individuazione di un tema. L’analisi di un determinato topos non trovava spazio in due appuntamenti il cui obiettivo principale era quello di mettere in scena invenzioni estetiche: degli exercices de style sulla contemporaneità e sul suo modo di interpretare, a seconda dei casi, passato e presente.
Crossroad #2: Dittico, conserva la struttura dell’appuntamento precedente: due strade distinte che trovano un punto d’incontro attorno al quale costruire un discorso espositivo. In questa occasione, due autori interessati a mezzi espressivi distanti hanno individuato nell’infanzia il tema su cui fondare il proprio intreccio. Non ci troviamo di fronte ad una terra inesplorata, ma ciò non vuol dire che il percorso sia privo di insidie.
Una delle prime curiosità che ho manifestato a Nicola e ad Andreas, interrogandoli su questo lavoro, è se a loro avviso l’arte contemporanea si interessasse sufficientemente all’immaginario infantile e – più in generale – ai bambini. Per entrambi la risposta sembra essere negativa. Nicola Vinci parte dall’assunto che l’arte abbia rinnunciato da molto tempo alla propria funzione – assieme inquisitoria e psicanalitica – d’interrogarsi sull’esistenza umana, e questo per cause da ricercare tanto nell’influenza del mercato quanto nei mutamenti di una società che ha perduto il senso della famiglia e quello, ancor più prezioso, dell’educazione. Andreas Senoner ritiene che il legame fra infanzia e arte richieda una prudenza non scontata: il difficile, per l’artista, è maneggiare la naturalezza e la delicatezza necessarie a capire il mondo dell’infanzia e addentrarvisi, sfuggendo all’inevitabile deformazione di un’impostazione mentale adulta. In altre parole, dimenticarsi d’essere cresciuti, il che mi ricorda una citazione piuttosto inflazionata di Pablo Picasso – che dice più o meno: “Ogni bambino è un artista, il problema è come rimanere artisti quando si cresce”.
Perdere il proprio status di adulti è forse la chiave per riuscire a rappresentare al tempo stesso l’immagine e l’immaginario dell’età infantile, ma né Nicola né Andreas hanno realizzato le proprie fotografie e sculture con l’obiettivo di riprodurre uno stile infantile. Ciò che fa di Crossroad #2 una mostra complessa è, al contrario, il tentativo di rappresentare le luci e le ombre dell’infanzia dimenticandosi di ciò che in termini di vita vissuta ci separa da essa, ma senza rinunciare a una cifra stilistica formata. Pensiamo alla luminosa rappresentazione dell’infanzia che Monet fissa nel ritratto del primogenito Jean e, all’opposto, a due cupe tele di Munch quali La pubertà e La fanciulla malata, in cui l’immagine dell’infanzia è legata a quella della morte, all’incombenza dell’età adulta, con i suoi demoni, primo fra tutti la malinconia. Queste opposte interpretazioni delle ambiguità del mondo infantile si uniscono nelle opere di Andreas e Nicola. In esse vige un’ambivalenza costante che, facendo il verso all’accoppiata freudiana di eros e thanatos (pulsione di vita e pulsione di morte), potremmo riproporre con una locuzione latina: ludus et melancholia, gioco e malinconia. Nelle sculture Another mouse e What would you attempt to do if you knew you could not fail?, Andreas Senoner combina l’elemento ludico (le orecchie da Mickey Mouse nella prima e il bambino a cavalcioni sulle spalle della ragazza nella seconda) alla severità dei volti tipica delle sue opere, resa particolarmente espressiva dalla lavorazione del legno, che rimanda direttamente alla scultura sacra. Gioco e malinconia permeano le fotografie di Nicola Vinci, “abitate” da un bambino con un costume da scheletro e una bambina in rosa. La simbologia affidata ai colori e ai vestiti parla da sola; a catturare la nostra attenzione sono le differenti scene raffigurate. In Tear, il bimbo-morte è colto nell’atto di strappare le pagine di un vecchio quaderno, come in un gioco frenetico, mentre la bambina sembra nascondersi, una mano portata al cuore. In un altro scatto, Le fifre, le immagini sfocate e sovrapposte dei due bambini alludono agli intrecci dolorosi che legano fanciullezza, maturità e caducità.
Gli scenari composti da Nicola Vinci ricordano il Matzerath del “Tamburo di latta” (Günter Grass, 1959) giovane dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che tuttavia trascorre la propria esistenza nell’ostinato rifiuto di crescere, passando per matto e demente. Nelle opere di Andreas il rifiuto della crescita e dell’invecchiamento ricorre in toni meno drammatici: è incarnato dal personaggio di Peter Pan, dal ruolo che questo gioca nell’immaginario popolare moderno. In entrambi incontriamo il desiderio che l’infanzia non finisca, di rimanere per sempre bambini, che trova voce dalla mitologia alla psicanalisi nella figura del puer aeternus: per gli antichi, divinità dell’eterna giovinezza; per Jung base del cosiddetto “archetipo”, struttura psichica elementare di ogni adulto. Una componente che racchiude luci e ombre: da un lato, l’infinito potenziale della crescita, la speranza per il futuro; dall’altro, l’immobilità di fronte alle difficoltà della vita, la paura dell’invecchiamento, la necessità di una via di fuga. In parole povere, il perdurare di una componente infantile all’interno della psiche formata.
Inevitabile, a questo punto, fare riferimento alla citazione che apre questo testo, e che sinora era rimasta taciuta. L’influenza che Henri Bergson ha avuto sulla critica e sulla letteratura è evidente in Benjamin[2] e nell’intera Recherche du temps perdu di Proust. Questi tre nomi sono accomunati da una distinzione, formulata da Bergson, tra quelle che egli definisce mémoire volontaire e mémoire involontarie: la prima utile, a cui ricorriamo spontaneamente, cioè il ricordo cosciente di un avvenimento passato; la seconda memoria, “non necessaria”, che Proust inseguirà per tutta la vita scrivendo la Recherche, rappresentata dai ricordi non più fruibili direttamente dalla coscienza, ma evocati inaspettatamente da esperienze sensibili già vissute, delle quali si era perduta traccia. Nicola e Andreas hanno portato avanti il proprio lavoro senza intenzioni mimetiche, senza cercare nel bambino un’immedesimazione stilistica e formale, mirando però a riscoprire quei ricordi non ancora filtrati dalla loro prospettiva di adulti. La loro opera è consapevole che i reperti della mémoire involontaire, i ricordi “non necessari”, i souvenirs de luxe di Bergson, seppelliti in profondo e proprio per questo intensi, sono le tracce più preziose e fedeli della nostra infanzia. Questa mostra, questo dittico, titolo scelto con convinzione da entrambi gli artisti, a sottolineare il doppio punto di vista e quasi la “sacralità” del tema affrontato, nasce con l’idea di restituire all’arte un compito antico, forse un po’ trascurato: rievocare le immagini e le sensazioni di un tempo perduto.
[1] Trad. da H. Bergson, L’évolution créatrice, Les Presses universitaires de France, 1959, 86e édition, Collection Bibliothèque de philosophie contemporaine, p. 14
[2] In particolare, Über einige Motive bei Baudelaire, “Di alcuni motivi in Baudelaire” (1939), oggi in Angelus Novus, tr. It. Einaudi, Torino 1962
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