Giovanni Ozzola, Castaway Depot

🇮🇹 Catalog text for Castaway Depot, Giovanni Ozzola's solo show at Doppelgaenger Gallery, Bari, June 4 2012.

Stimmung. Giovanni pronuncia diverse volte questa parola nel corso della nostra primissima conversazione. La sua più comune traduzione dal Tedesco è “stato d’animo”, e la mia memoria non tarda ad associarla a Kant, poi a Simmel: la prima volta che l’ho letta, o ascoltata, è stato al liceo. Mi impongo di sedare sul nascere l’improvviso amarcord, e di prestare massima attenzione a quello che mi sta dicendo Giovanni.

Sin da subito, mi preme appurare la natura del suo legame con la filosofia, intesa sia come oggetto di studio che come vera e propria attitudine alle cose del Mondo. Questo, perché le opere di Giovanni Ozzola, già a una prima lettura, sembrano manifestare con essa una prossimità matura ed elegante. L’impressione trova immediata conferma nel momento in cui Giovanni mi racconta di quando, appena sedicenne, disertava il liceo per seguire dei corsi universitari di filosofia da libero uditore.

Tuttavia, prima di avanzare conclusioni, sento di dover usare prudenza: l’intersezione tra arte e filosofia provoca spesso dei malintesi di origine teorica. L’arte trasfigurata in filosofia è quella cui siamo soliti riferirci col novero di “arte concettuale”[i], definizione che si presta ad interpretazioni ambigue e della quale si abusa troppo facilmente. Inquadrare le sperimentazioni di Giovanni in questa categoria non renderebbe loro giustizia. È, in ogni caso, un problema cui possiamo tranquillamente sottrarci; Giovanni è il primo a tenersi lontano dalle smanie categorizzanti. “Non mi interessa” è la risposta alla domanda “Ti hanno mai chiesto ‘che genere di artista sei’?“. E siccome il dare definizioni, il cercare a tutti i costi di riempire caselle, è sbagliato, io mi limiterò a pensare a Giovanni Ozzola come a un artista poliedrico e meditativo, giovane ma con alle spalle un già ricchissimo percorso creativo, ad oggi culminato in Castaway Depot.

Vasco de Gama

Nonostante abbia fatto di fotografia, video e installazione i suoi terreni privilegiati, le creazioni di Giovanni hanno sorprendentemente qualcosa da spartire con la pittura. Si tratta proprio di quella stimmung che egli ama citare, e che da sempre lo accompagna nel corso delle sue realizzazioni. Un’arte non pittorica, ma frutto dell’osservazione delle stesse leggi che il tempo e lo spazio impongono alla pittura. Ci basta un breve passo indietro nella sua carriera: “Superficiale – Under my skin” (2010). In poco più di due minuti sono concentrate cinque ore di videoregistrazione; l’inquadratura fissa su due pareti bianche, soggetto dell’opera la luce del sole durante il tramonto. Quest’ultima cambia colore, posizione, e poco a poco si spegne, fino a lasciar posto al buio: tutta l’attenzione è monopolizzata dalla trasformazione della luce e dei suoi colori. L’esperimento ha un importantissimo precedente pittorico, che sono le serie di Monet. Nelle differenti esposizioni alla luce del sole della Cattedrale di Rouen, o dei pioppi o dei pagliai, si legge per la prima volta l’interesse a trasfigurare un fenomeno fisico e naturale in uno stato d’animo vero e proprio. Chiamarla stimmung o impression, sono sfumature.

Castaway Depot prende forma da una creazione insolita, un’assoluta novità nella produzione di Ozzola. Siamo di fronte ad un grande muro composto di pietre d’ardesia, e la prima cosa a colpirci è il loro essere attraversate da una fitta serie di solchi. Un osservatore poco superficiale si renderà immediatamente conto che tali tracce non sono state incise lì a caso, anzi, esse sottintendono una logica ben precisa. Questa ci si rivela quando scopriamo di trovarci di fronte ad un autentico inventario di carte di navigazione sovrapposte fra loro, e che quelle incisioni indicano le rotte intraprese dai grandi navigatori ed esploratori. Lo stesso attento osservatore si interrogherà, quindi, sulla totale assenza di geografia: quale insolita caratteristica per una mappa! Qui risiede una certa affinità con “Superficiale – Under my skin”: l’idea del viaggio, rappresentato dalla rotta, stabilisce sui luoghi geografici, sulla partenza e sull’arrivo, un predominio assoluto. A Giovanni Ozzola non interessa la Spagna e tanto meno l’America. Conta solo ciò che è accaduto in mezzo ad esse.

Le incisioni sulle ardesie si caricano quindi di un’ulteriore, sottilissima simbologia. È necessario pensare a esse come a delle cicatrici, e in tal senso l’idea del viaggio assume la connotazione dolorosa che è propria della parola “naufrago” (traduzione dall’inglese di “castaway”). I grandi navigatori si sono mossi sulla base di informazioni e di congetture, mai su certezze: nel colore nero dell’ardesia prendono forma quel trauma e quella ferita che è l’esplorazione dell’ignoto. Nella navigazione l’uomo ha individuato lo strumento per darsi una collocazione, cioè un’identità. E in fin dei conti, le rotte di Cristoforo Colombo, Magellano, Zheng He o Darwin, non sono altro che dei veri e propri solchi nella memoria collettiva. L’atto del partire, del viaggiare, custodisce una dimensione traumatica che trova soluzione nell’auto-percezione e nella costruzione del sé. Il concetto di stimmung incarna questo particolare significato: quella che in Kant[ii] e in Simmel[iii] era una disposizione d’animo ideale per consentire il giudizio estetico, per Giovanni diventa molto semplicemente la scoperta di se stessi nel tempo e nello spazio, la consapevolezza di esistere. Traguardo doloroso e necessario.

Our eyes with a magnetic map and my pathos

Abbiamo ancora a che fare con una cartografia non convenzionale quando ci troviamo di fronte a “A grounded universe with pathos”. Si tratta di un planetario – una mappa della volta celeste – da camera, nel quale tuttavia figurano due soli corpi. L’idea del viaggio qui trova una duplice dimensione, tanto cosmica quanto umana. Giovanni mi spiega che le due sfere sono Venere e Marte, e tutto diventa improvvisamente chiaro. L’influenza dei due pianeti sul nostro è di due tipi: fisica, perché nel Sistema Solare la Terra si situa fra questi. Culturale, perché in mitologia Venere e Marte sono rispettivamente le divinità preposte all’amore e alla guerra. La presenza di quest’opera va letta come espressione del ruolo che gli astri, tanto attraverso la scienza (astronomia) quanto nella tradizione (astrologia), hanno sempre giocato nella vita degli esseri umani, tracciandone destini reali o fittizi.

Quella cartografica non è l’unica suggestione con la quale lo spettatore è invitato a confrontarsi. Un’altra opera – un neon da soffitto la cui disposizione forma un cerchio che non si chiude – recita: “Illuminarsi rompendo l’eterno ritorno”. Ennesimo clin d’oeil alla filosofia. Vi trovano riscontro in egual misura i temi privilegiati dalle recenti sperimentazioni di Ozzola, la luce e il viaggio. Il risultato è una rappresentazione sintetica dell’uroboro, il serpente che si morde la coda, antico simbolo della ciclicità del tempo e che Nietzsche reinterpretò attraverso la voce di Zarathustra[iv]. Tocca alla luce svolgere la funzione traumatica e salvifica, rispettivamente simboleggiate dall’atto di spezzare il cerchio e consentire una proiezione lineare di sé. In avanti. In altre parole, ancora una volta: rendere possibile il viaggio e scoprire se stessi.

Fin qui, le opere di Giovanni si manifestano nella loro duplice natura: una semplicità estetica “aurorale”[v] – aggettivo che prendo in prestito da Pier Luigi Tazzi, critico cui va il merito di aver “scoperto” Ozzola – unita a una ricchezza incredibile di richiami, siano essi culturali, storici e filosofici. Eppure commetteremmo una grave leggerezza se non indagassimo l’eventuale esistenza di legami specifici di Castaway Depot col luogo che la ospita.

Una delle prime cose che chiedo a Giovanni riguarda proprio Bari. Mi interessa molto scoprire se questa mostra, per le sue evidenti affinità con il mare, sia stata in parte concepita specificamente per Bari. La risposta, un po’ inaspettatamente stavolta, è negativa. Giovanni mette subito in chiaro che tutte le sue intenzioni sono mosse soltanto dal suo istinto. Che nulla è il risultato di un progetto e che nelle sue creazioni non vi è traccia di matematica alcuna. Ciononostante, è lo stesso Giovanni a correggere il tiro: “Ci sono delle affinità elettive”. Ci siamo soffermati sinora sul significato di “castaway”, ma non ancora su quello di “depot”. La sua traduzione non è difficile da indovinare: letteralmente, “deposito”. Ma c’è un’altra accezione, che è quella di “rifugio”. E l’idea di un “rifugio per naufraghi” si sposa meravigliosamente a una città come Bari, per la sua tradizione e per la sua storia, antica e recente. Dall’episodio miracoloso in cui San Nicola salva una nave nel bel mezzo di una tempesta (già ispiratore di pittori illustrissimi, da Gentile da Fabriano a Corrado Giaquinto) a quello assai più vivo, nelle nostre memorie, dell’arrivo della nave Vlora, carica di ventimila profughi albanesi. Forse tutte queste sono affinità elettive. Fu lo stesso Goethe, nel Faust, a dire che:

Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo.[vi]

Est Trani

La decisione di Giovanni è stata quella di realizzare e riunire un corpus di opere dedicate a un insieme di temi, tra loro fortemente interconnessi. Il viaggio, la navigazione, il naufragio, il mare: tutte cose caratterizzate da uno straordinario magnetismo, in grado di attirare su di sé una fitta serie di riflessioni. Che si faccia del naufragio un veicolo d’espressione artistica, assume ancora più importanza vista la grave banalizzazione del suo odierno significato: complici i media, naufraghi sembrano esserlo soltanto gli annoiati partecipanti di improbabili reality show, mentre nella tragicità del naufragio di una nave da crociera trovano eccessivo risalto le comiche negligenze di un capitano assai poco coraggioso. Anche queste, affinità. A ricordarci la dimensione tragica del naufragio vi è una serie di pietre sulle quali Giovanni ha impresso, per mezzo di una pellicola sottilissima, dei fotogrammi di un temporale, tratti da una sua precedente opera, un video intitolato “Almost 300 lightnings – Turner mood”. L’effetto del lampo che squarcia un cielo oscuro abbagliando i volumi turbolenti delle nubi è reso perfettamente dalla superficie grezza, non levigata, della pietra su cui l’immagine è applicata. Il risultato è stupefacente e straniante, perfettamente in linea con il mood – la stimmung – di certi cieli tempestosi di William Turner.

Per Castaway Depot Giovanni ha previsto un sottotitolo altrettanto eloquente: “41° 7’ 31’’ N 16° 52’ 0’’ E – In a sentimental mood”. Da una parte le coordinate geografiche di Bari. Dall’altra un riferimento musicale, Duke Ellington. Ascoltando il brano (in un meraviglioso arrangiamento con John Coltrane) mi rendo conto di una cosa: lo stato d’animo con il quale Giovanni ha affrontato la realizzazione di questo suo più recente cammino espressivo, sembra essere perfettamente evocato dalla musica, oltre che dal titolo. Credo che questo stato d’animo, questa stimmung che ci riconduce esattamente lì dove avevamo iniziato, sia la chiave per capire le ragioni del viaggio, artistico e umano, che Giovanni Ozzola ha intrapreso e propone allo spettatore di questa mostra.

Oltre a frequentare corsi universitari di filosofia, il sedicenne Ozzola si metteva allora in viaggio senza una meta precisa e senza sapere che, di lì a poco, per caso, avrebbe cominciato la sua carriera d’artista. Gli chiedo se, in fondo, Castaway Depot possa essere pure il resoconto involontario, a distanza di anni, di un viaggio di vita intrapreso senza alcuna certezza. La sua personale rotta, la sua antica cicatrice. Dopo un attimo di esitazione, mi risponde che non si sente di escludere questa possibilità.

Chiedersi come mai l’uomo senta, da sempre, il bisogno di partire, spesso navigando al buio o nel bel mezzo di una tempesta, rientra fra le domande cui questa mostra prova a dare una risposta. C’è una bellissima canzone di Fabrizio De André che si intitola Khorakhané (A forza di essere vento), e che è tratta dal suo ultimo album (Anime Salve, 1996). Di questa, mi vengono in mente alcune parole:

Per la stessa ragione del viaggio: viaggiare.

3000 b.c.e. – 2000 il cammino verso se stessi

 

[i] Vedere la scuola critico-estetica nordamericana, A. Danto, G. Dickie e N. Goodman. In particolare, cfr. Arthur C. Danto, La Trasfigurazione del banale, Laterza, Bari-Roma 2008

[ii] Cfr. Immanuel Kant, Critique du jugement, suivie des Observations sur le sentiment du beau et du sublime, Ladrange, Paris 1846, pp. 89-95,

e: Thomas Pfau, The Appearance of Stimmung: Play as Virtual Rationality, in Stimmung: zur

Wiederkehr einer ästhetischen Kategorie?, ed. Anna-Katharina Gisbertz, Munich-Fink, 2011, pp. 95-111

[iii] Cfr. G. Simmel, Filosofia del paesaggio (1912-13), in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte. Il Mulino, Bologna 1985

[iv] Cfr. Friedrich W. Nietzsche, Così parlò ZarathustraLa visione e l’enigma, in Opere, Adelphi, Milano 1977, vol. VI, tomo 1, pp. 191-194.

[v] Cit. Pier Luigi Tazzi, Introduzione in 10 paragrafi casuali, Capalle 2004,

[vi] Cit. Johann W. Goethe, Faust, versione italiana della traduzione inglese ad opera di John Anster, Cassel, London 1909, p. 20 (vv. 214-230)

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